Cose che ti possono capitare a NYC. Schegge di ricordi del primissimo viaggio a New York, trascritte, senza apparente logica, da un quadernetto con la copertina riciclata da un copertone di bicicletta.
Parte terza.
Declare your Team!
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Il Madison Square Garden lo vedi grande e grosso davanti a te, poco dopo (o poco prima) l’enorme edificio delle poste e telecomunicazioni, sulla 33esima. Il primo problema è però capire da dove si entra. Sì perché trovare l’ingresso non è così intuitivo (almeno non lo è stato per me). Potreste ad esempio rischiare di finire al livello inferiore, magari in mezzo a una semi rissa tra ubriachi all’ingresso di Pennsylvania Station, oppure potreste presentarvi all’entrata – sbagliata e sbarrata – che c’è sul lato opposto di quella giusta (che per la cronaca è sulla settima strada). Il consiglio è quindi di arrivare con un po’ di anticipo.
Una volta dentro potrete farvi un bel giro negli ampi corridoi, ingozzarvi di hot dog o panini king size oppure, se volete fare un po’ i fighetti, potrete optare per il sushi. Ogni dieci metri – non scherzo – troverete un erogatore di ketchup e maio, per condire la vostra cena.
Dopo la foto di ordinanza davanti alla gigantografia di Gallinari (che qui chiamano Gallllllliiiiinari), potrete finalmente prendere posto canticchiando le marcette che sentirete in diffusione in tutto lo stadio, e che ben presto sfiniranno le vostre orecchie (we love New Yorkkkkk and we love basketballllll, we are the New York Knicks!). L’interno del Madison è meraviglioso e non tratterrete un brivido ripensando alla sua storia e alla quantità di eventi (sportivi e non) che ha ospitato sin dalla sua inaugurazione negli anni ’60.
La partita è preceduta dall’esecuzione dell’inno americano, The Star-Spangled Banner, cantato a squarciagola con grande intensità (e qualche stecca) da una giovane donna in mezzo al campo. Poi, finalmente, si comincia: Knicks contro Denver Nuggets nel mio caso. Diciamo subito che l’evento sportivo vero e proprio, in un certo senso, passa completamente in secondo piano. Il tifo, inteso come cori o striscioni, è inesistente, anche se lo stadio è praticamente al completo: si applaude quando fa canestro New York e si sta fermi quando lo fanno gli altri (ma, se il canestro merita, si applaude – sportivamente – anche in questo caso). Per il resto ci sarà sempre un sottofondo altissimo di musica e di urla proveniente dagli schermi sopra di voi. Quando i Knicks sono in vantaggio, ad esempio, lo schermo vi inciterà a urlare DE-FENCE, DE-FENCE, DE-FENCE! Gli schermi mi terrorizzavano perché ogni tanto inquadravano qualcuno fra il pubblico che doveva fare cose assurde tipo ballare, saltare, baciare il vicino e ovviamente temevo potesse succedere anche a me, ma per fortuna l’ho scampata. Poi ci sono i time out – lunghissimi – che spezzano continuamente il gioco e che qui vengono usati per fare di tutto: premiazioni di improbabili bambini prodigio, esibizioni di danza, acrobazie pazze, musica a palla. Tutto questo succede mentre le due povere squadre ai lati del campo cercano di recuperare la concentrazione e ripassare gli schemi. Non c’è un attimo di tregua, ogni momento morto viene riempito con il più alto tasso di spettacolarizzazione possibile. Nel complesso sono più di due ore di puro show, sembra quasi che ci sia una paura inconscia del vuoto, del silenzio, dell’attesa. E pensare che il basket, visto con gli occhi di un europeo (che al massimo ha visto qualche partita della Angelico Biella), è di un tale livello che basterebbe soltanto quello a fare spettacolo.
Il pubblico, durante il match, tenderà a muoversi e a spostarsi con frequenza, in genere ritornando poi al proprio posto con vassoi giganteschi pieni di bevande e panini (proporzionati al girovita), mentre instancabili venditori di zucchero filato, (che sembrano grossi palloncini colorati legati in cima a dei bastoni), si muoveranno avanti e indietro per tutto il tempo, occludendovi spesso e volentieri la visuale.
Per la cronaca, i Knicks hanno vinto, nonostante un inizio davvero sofferto, e Gallllllliiiiiinari con le sue bombe da tre punti ha fatto un partitone.
And the star-spangled banner in triumph doth wave
PS: per chi avesse letto il mio articolo Ci sono POSTI e posti vi posso dire che non sono finito seduto vicino a Melissa Joan Hart, però al Madison c’era niente meno che Magic Johnson.
Respect.